«Crisi pesantissima per la frutta estiva, dovuta all’andamento climatico anomalo, alla contemporanea maturazione nei principali Paesi produttori, al costante calo dei consumi domestici. Ciò – sottolinea Confagricoltura – ha comportato un crollo dei prezzi pagati agli agricoltori, che non riescono a coprire nemmeno i costi di produzione. Per dare l’idea delle enormi difficoltà del settore, uno smartphone top vale quanto il consumo annuale di frutta 18 italiani, 3.000 chilogrammi». Lo sottolinea Albano Bergami, presidente della Federazione nazionale frutta di Confagricoltura, evidenziando la grave situazione che attraversa il settore.
«Piogge, grande freddo e poi temperature roventi- spiega Bergami – hanno fatto sì che si accavallassero i raccolti delle produzioni in serra con quelle a pieno campo. Il freddo ha limitato la crescita dei frutti, mentre il caldo improvviso l’ha poi fermata. In più, è aumentato l’import dalla Spagna, che ha registrato un’annata di sovrapproduzione». La stagione era partita generalmente bene, ma si è arenata strada facendo, tant’è che c’è ancora molta frutta nelle celle frigorifere e, in particolare per le albicocche, il prezzo all’origine intorno ai 30/35 centesimi non compensa neppure i costi di raccolta, costringendo gli agricoltori a lasciarle sugli alberi.
Nel dettaglio quest’anno il raccolto di albicocche, pesche e nettarine è positivo in termini di quantità (più 13% rispetto al 2018 e l’aumento ha riguardato in maniera maggiore il centro sud ed è stato più contenuto al nord). Le susine non riescono però a spuntare prezzi superiori ai 70 centesimi al chilo (contro 1,20 euro dello scorso anno). Le ciliegie hanno avuto una stagione disastrosa: si registra un – 50% della produzione in Puglia e – un 20% in Emilia Romagna. Per l’anguria e il melone, invece, la stagione, iniziata male per le primizie e il prodotto sotto serra, ora sta migliorando. La crisi della frutta ha conseguenze pesanti anche sull’occupazione. Confagricoltura ricorda che sono oltre 100 mila le persone che lavorano nel settore, senza considerare l’indotto. «Oggi – conclude Bergami – sono a rischio almeno 10 milioni di giornate di lavoro».
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